Arte
di Attilio
Scarponi
“Proprio come l'artista
saggio produce la sua arte da sé, in sé e in essa
prevede le cose da fare... allo stesso modo l'intelletto
produce da sé e in sé la sua ragione, in cui pre-sa e
casualmente pre-crea tutte le cose che desidera fare
“Questa citazione di Giovanni Scoto Eriugena, un monaco
irlandese, nato agli inizi del era nono secolo d.c., che
visse gran parte della sua vita in Francia, noto come
teologo, seguace della scuola "negativa" o Apofatica di
origine bizantina, ma soprattutto come filosofo della
conoscenza, è riportata in “Costruttivismo Radicale”, di
Ernst von Glasersfeld.
Ora, naturalmente, qui non interessa la sua teologia
quanto piuttosto la metafora della conoscenza presente
nella citazione, che ipotizza un paragone strutturale
tra l’arte, la scienza, la filosofia e di ogni altra
forma di conoscenza umana, posto che si sia tutti
d’accordo a considerare questi campi come campi della
conoscenza.
Questa consapevolezza di
una medesima struttura, in campi applicativi diversi,
non si è sempre mantenuta nel corso dei secoli, ma,
specie nella fase post rinascimentale e di affermazione
della scienza occidentale, nei suoi effetti di
ampliamento della conoscenza ma anche e, forse
soprattutto, economici e militari, ha generato un
progressivo allontanamento tra il dominio della
conoscenza scientifica”esatto” e “oggettivo” per
definizione ed altri saperi più “soggettivi” e
approssimativi fino a raggruppare le scienze in “esatte”
e “umanistiche”, che in questa ottica avrebbero operato
in base a presupposti assai diversi.E’ solo in tempi recenti,
per impulso delle speculazioni seguite alle scoperte
della Meccanica Quantistica e della Relatività, che la
filosofia della Scienza ha cominciato a porsi il
problema dei presupposti inconsapevoli a partire da cui
operano i singoli scienziati ponendosi nuove domande
sulla cosiddetta realtà oggettiva e come la Scienza
contribuisca a conoscerla.Una domanda importante, che
ha contribuito non poco allo sviluppo di un nuovo punto
di vista, è: come si sviluppa il sapere scientifico? La risposta tradizionale,
si basa sull’accumulazione di sapere e gli scienziati
sono coloro che contribuiscono ad ampliare questo
deposito di conoscenza. In realtà questa concezione
non rende conto di troppi elementi ed appare francamente
semplicistica per dare conto della realtà delle cose e
negli ultimi cinquanta anni sempre più scienziati e
storici della scienza hanno cercato di approfondire i
presupposti di questa concezione. Rispondere alla domanda:
come si sviluppa il sapere scientifico vuol dire,
sostiene Thomas Kunn, da un lato determinare chi e
quando ha realizzato una certa scoperta e dall’altro
dare ragione dei ritardi, errori e superstizioni che
hanno ostacolato lo sviluppo del sapere scientifico. Ora, nella storia della
scienza, non è sempre possibile dire chi e quando hanno
realizzato una certa scoperta, anche perché fare una
scoperta vuol dire molto di più che disporre di un nuovo
processo, identificare un elemento, ecc., specie se la
scoperta è importante occorre cambiare il proprio
paradigma di conoscenze e acquisire consapevolezza del
significato della novità che si ha davanti. Voglio dire: qualcosa di
simile alla scoperta dell’America; poco importa se prima
di Colombo i Vichinghi o magari altri popoli l’avevano
visitata se ciò non aveva prodotto alcun tipo di
conseguenza per la civiltà perché non si erano resi
conto che la scoperta avrebbe cambiato la carta della
terra, con le conseguenze che ne sono derivate. A questa prima
considerazione va aggiunto che spesso le credenze del
passato non erano meno “scientifiche” di quelle odierne,
almeno nel senso del metodo scientifico, e lo storico
della scienza si trova così davanti alla necessità di
includere nella storia della scienza teorie affatto
incompatibili tra loro. Se però invece di vedere la
storia della scienza come l’accumulazione costante di
conoscenze, nella prospettiva del presente e del
benessere che i singoli contributi hanno apportato
all’oggi, la esaminiamo alla luce delle concezioni
allora vigenti, e dei problemi affrontati e risolti con
quelle concezioni forse allora potremmo renderci conto
che per misurare un campo non occorre la scienza
galileiana o newtoniana e meno ancora la relatività, è
più facile adottare i presupposti di Tolomeo. C’è bisogno sia di
osservazione ed esperienza, sia di presupposti culturali
e sociali ai quali l’individuo somma i suoi propri,
frutto della propria neurologia e della propria
educazione. Le risposte a domande
quali: come è fatto l’Universo, quali sono e come
interagiscono i suoi componenti fondamentali o come
possiamo indagarli fanno parte dei presupposti della
propria cultura che vengono assorbiti,
inconsapevolmente, durante la propria formazione
scolastica ed esercitano una profonda influenza sulla
mentalità scientifica ad un punto che, come osserva
ancora Kunn, “la confutazione di un paradigma
scientifico e l’adozione di uno nuovo non dipende mai
dalle singole contraddizioni esistenti tra la
spiegazione dedotta dal paradigma vigente e le
misurazioni in contrasto col medesimo”. Per passare dalla fisica
Newtoniana a quella relativistica o quantistica c’è
stato bisogno di un lungo processo, una fase di crisi e,
come ammette lo stesso Kunn, di una diversa percezione. Ora è assai importante
chiarire che percepire non è affatto un ricevere
passivamente input esterni, l’atto di selezionare alcuni
elementi della nostra esperienza, ovvero raccogliere i
dati, e su questa base percepire l’esistenza di un mondo
di oggetti, la realtà, è tutt’altro che un fatto
passivo, come già ebbero modo di chiarire sia Piaget sia
molti altri. Per introdurci a questa
visione costruttivista della conoscenza credo sia utile
questo passo di Carlos Castaneda( A scuola dallo
stregone).Castaneda si recò a Sonora,
in Messico, per incontrare un brujo(stregone), di nome
don Juan, per farsi aiutare ad apprendere a vedere. Così
Don Juan se ne va con Carlito nella boscaglia messicana
per insegnargli a vedere ciò che vi avviene. Essi
camminano per un'ora o due e improvvisamente don Juan
dice: "Guarda, guarda là! Hai visto?' Castaneda
risponde:’No... non ho visto". 'Niente di male'.
Riprendono il cammino e dopo circa dieci minuti DonJuan
ancora: 'Guarda, guarda là! Hai visto?' Castaneda guarda
e dice: 'Non vedo un bel niente'. 'Ah!'. Continuano a
camminare e la stessa scena si ripete altre due o tre
volte, ma Castaneda non vede mai niente. Finalmente don
Juan trova la soluzione: 'Ora capisco, Carlito, qual è
il tuo problema. Non puoi vedere le cose che non sai
spiegare. Cerca di dimenticarti delle spiegazioni e
comincerai a vedere '. Come è evidente da questa
citazione percepire non è un “rispecchiamento” della
realtà, ma è un vero e proprio fare”, un “costruire” la
realtà, almeno per quanto riguarda la conoscenza. Questo tema, il tema della
percezione come “fare” è già presente nella storia della
filosofia, basti pensare a Berkley, Vico e, soprattutto
Kant, è un tema centrale nella filosofia costruttivista
che ha approfondito gli spunti pervenuti dai pensatori
precedenti e grazie all’adozione di un modello
scientifico fondato sulla biologia piuttosto che uno
basato sulla fisica ha potuto fondare con grande
efficacia e fecondità questo punto di vista. Sono proprio due biologi
come Marturana e Varela, in “L’albero della Conoscenza”,
partendo da una critica serrata dei limiti e problemi
della tradizionale concezione della percezione come
“ricezione” di stimoli, ovvero intesa solo come
rispecchiamento della realtà, a proporre una visione
evoluzionista della conoscenza come punto finale del
processo evolutivo.
L’analisi inizia proprio da
un esame dei problemi della percezione. Con una osservazione che
troverà fecondo sviluppo nella Programmazione
Neurolinguistica, i due autori affermano:”Niente di
quello che stiamo per dire potrà essere compreso in modo
veramente efficace se il lettore non si sentirà
coinvolto personalmente, se non avrà un'esperienza
diretta che vada oltre la semplice descrizione che se ne
può fare”, ovvero tra la conoscenza attraverso la vista,
attraverso le sensazioni attraverso il ragionamento c’è
una irriducibilità relativa e per intendere veramente
qualcosa bisogna sperimentarlo attraverso più di un
sistema sensoriale, nel quale quello delle sensazioni
ha, appunto, un’importanza primaria. Vi propongo pertanto questa
simpatica esperienza costruttivista, al termine della
quale forse l'apparente solidità del nostro universo di
esperienze diverrà per tutti rapidamente sospetta. Fissare lo sguardo sulla
croce disegnata nella figura, coprendosi l'occhio
sinistro e ponendo la pagina a una distanza di circa 40
centimetri. Ciò che si osserverà è che il punto nero,
nella figura di dimensioni non trascurabili,
improvvisamente scompare! In realtà si può fare questa
stessa osservazione senza alcun disegno, semplicemente
sostituendo la croce e il punto con i pollici. Il dito
appare decapitato (provate!).
x
*
La spiegazione normalmente
accettata per questo fenomeno è che in questa
particolare posizione l'immagine del punto (o del dito,
o del suddito) cade nella zona della retina da cui si
diparte il nervo ottico, zona non sensibile alla luce e
chiamata «punto cieco». Però, quando si dà questa
spiegazione, raramente viene messo in evidenza il perché
non ci accorgiamo sempre del «buco» che abbiamo
nell'occhio. La nostra esperienza visiva è relativa a
uno spazio continuo e, a meno che non ricorriamo a
queste ingegnose manipolazioni, non percepiamo che nella
realtà c'è una discontinuità. Il fatto interessante
nell'esperimento del punto cieco è che non vediamo di
non vedere. Ed in realtà, nella vita di
tutti i giorni, anche ora in questa sala, se nel nostro
campo visivo apparisse un “buco”, sono certo che ci
faremmo subito visitare da un oculista…… Questo ed altri esperimenti
consentono di affermare che la nostra esperienza è
indissolubilmente legata alla nostra struttura:noi non
vediamo lo spazio ma viviamo il nostro “campo visivo”. E’ questo il punto di
partenza per riflettere sulla conoscenza in se stessa,
un tema particolarmente complesso da affrontare per la
circolarità implicita nell’utilizzare uno strumento di
analisi per analizzare se stesso, è come, dicono
Marturana e Varela “se pretendessimo che un occhio
vedesse se stesso”. E qui, con un’intuizione
davvero illuminante i due autori fanno ricorso all’arte,
ad una famosa incisione di M. C. Escher:le due mani che
si disegnano a vicenda, di modo che non si riesce a
sapere qual è l’inizio del processo. Il motivo che conferisce a
questa immagine la sua forza esplicativa sta nel
rappresentare con tanta efficacia il paradosso
autoreferenziale, di cui dobbiamo a Gregory Bateson una
brillante investigazione, basata sulla teoria dei tipi
logici, elaborata da Bertand Russell nei “Principia
Matematica”.Esaminiamo, ad esempio il
celebre paradosso del cretese. Il cretese dice:tutti i
cretesi mentono. Come osservatore che si
include nel gruppo mente per dire la verità, se invece
si esclude dal gruppo dice la verità per rivelare una
menzogna. Il paradosso è dunque
insito in ogni sistema di osservazione perchè nessuna
osservazione può escludere l’osservatore e le
osservazioni dell’osservatore includono il suo
osservare. Come osservatore il cretese
parlava della classe dei cretesi, come cretese poteva
parlare solo per se stesso, ovvero di un elemento di
questa classe. In base alla teoria dei
tipi logici una classe non può essere elemento di se
stessa. Peraltro è lo stesso buon
senso a dirci che la classe delle forchette non può
essere una forchetta.
Ma, come avrebbe detto Bateson, 'La logica è uno
strumento molto elegante, il guaio è che quando la si
applica a granchi e focene e farfalle, e alla formazione
di abitudini"non va molto bene." La questione sta nel fatto
che la vita stessa è paradossale, la presenza di un
osservatore è inevitabile, così come è inevitabile che
l’osservatore osservi se stesso ed il suo osservare;in
fondo il paradosso del mentitore è una metafora della
realtà. Piaget presenta un modello
di costruzione di più di un concetto – 'oggetto',
'spazio', 'causalità' e 'tempo' – e poi suggerisce come
i quattro elementi vengano integrati per formare lo
sfondo dell'esperienza, cioè il mondo esterno. Il modo di
osservare,dunque, dipende dai presupposti
dell’osservatore, per esempio il superamento in fisica
della visione meccanicistica ed il passaggio al pensiero
sistemico ha messo al centro della visione scientifica
non più gli oggetti, ma le relazioni, in maniera simile
Gregory Bateson, e con lui tutti i costruttivisti, si
domanda: “Quale struttura connette
il granchio con l'aragosta, l'orchidea con la primula e
tutti e quattro con me? E me con voi?”
Una delle idee centrali nel
pensiero di Bateson è che la struttura della natura e la
struttura della mente sono l'una un riflesso dell'altra,
che mente e natura sono un'unità necessaria. La metafora esprime una
somiglianza strutturale o, meglio ancora, una
somiglianza di organizzazione, e la metafora in questo
senso fu la preoccupazione centrale dell'opera di
Bateson. Alla formazione di
paradossi il linguaggio presta un valido contributo, che
il seguente racconto di Margaret Mead illustra in
maniera divertente. Durante uno dei suoi studi
sul linguaggio presso una certa popolazione si aiutava
ad apprendere il loro linguaggio utilizzando la modalità
denotativa. Così additava un oggetto, e poi un altro,
aspettandosi che le venisse fornito il loro nome, ma, in
ogni caso, tutte le persone le rispondevano sempre:
“Chemombo!” Tutto era Chemombo. Ella pensò “Mio Dio, che
linguaggio terribilmente noioso! Hanno una sola parola
per tutto!” Finalmente, dopo un certo periodo, riuscì a
scoprire il significato di Chemombo, che significava...
indicare con il dito! La confusione della Mead
nasceva da un presupposto:dico 'sedia' e la addito per
denotare l'oggetto. Ma in realtà quando dico 'sedia' non
addito la vostra sedia ma evoco in voi la nozione che
avete delle sedie, quindi conto sul fatto che ci basiamo
su nozioni condivise e reciproche relative a questo
particolare riferimento. I presupposti sono faccende
assai insidiose e in genere ogni generazione ha il
compito di esaminare e svelare i presupposti impliciti
di quella precedente, fatto che ogni genitore di figli
adolescenti ha certamente e fastidiosamente
sperimentato. Nella formazione di questi
presupposti il linguaggio gioca certamente un ruolo
importante, senza di esso non sapremmo come
rappresentare a noi stessi ed agli altri la nostra
esperienza, ma poiché le parole sono la traduzione
dell’esperienza che facciamo con i cinque sensi, in
questa traduzione si annidano delle insidie. Generalmente si sostiene
che il linguaggio sia una rappresentazione del mondo, ma
io vorrei proporvi esattamente l'opposto, e cioè che il
mondo è un'immagine del linguaggio col quale descriviamo
la nostra esperienza del mondo. Dunque l’esperienza è la
causa, il mondo è la conseguenza. Tra le trappole del
linguaggio, che però ci serve qui per illustrare uno
specifico modo col quale il linguaggio è la causa e il
mondo è la conseguenza c’è la nominalizzazione.
Significa che il verbo può essere trasformato in
sostantivo. E quando un verbo diventa nome, è come se
diventasse un oggetto indipendente da noi e noi perdiamo
la capacità di decidere su di esso. Molte persone che ricorrono
alla Psicoterapia sono vittime di una nominalizzazione.
Esse dicono “quel giorno purtroppo ho deciso della mia
vita, con quella scelta. Scegliere e decidere sono
due processi e in realtà nulla può impedirmi di decidere
diversamente e di scegliere un diverso comportamento
quando mi renda conto che il precedente era
dannoso…tranne la parola, che ha trasformato in cosa,
fuori dal mio controllo quel che in un processo rimane
in mio potere. Una bella metafora del modo
di ragionare che ci porta direttamente al punto finale
di questa riflessione è la parabola della focena. Bateson riporta un fatto
vero, riferito all’addestramento dei delfini. A uno di questi veniva
insegnato come esibirsi in pubblico in diversi
esercizi,nel primo veniva sollecitata con un fischio e
poi premiata con un pesce. Nel secondo non udiva alcun
fischio e quindi si esibiva con un leggero colpo di
coda, segno di malcontento, ma poiché era questo il
comportamento richiesto, veniva premiata. Naturalmente nel terzo
esercizio il colpo di coda non veniva premiato e ciò
diede luogo durante un addestramento ad un comportamento
molto speciale. Dopo molte tentativi
infruttuosi la focena apparve assai nervosa finché
all’esercizio successivo produsse ben otto diversi
comportamenti, quattro dei quali mai osservati in questa
specie. Se ne può concludere che,
dopo aver resistito ad una fase di acuta tensione,
dovuta all’ errore sulle regole che danno significato ad
un rapporto emotivamente importante, la focena mostrò un
comportamento creativo. Ma pur potendolo definire
creativo non sarebbe possibile definirlo artistico anche
se
presenta senza’altro alcuni elementi artistici come
l’esercizio di un’abilità e l’utilizzo di un
comportamento strutturato per comunicare qualcosa di
significativo per l’istruttore. Anche il linguaggio usato
dal delfino ha caratteristiche che ritroviamo
nell’arte:è un linguaggio che non comunica attraverso le
parole, semplicemente perché utilizza un tipo di
comunicazione diversa da quella verbale e logica, il
linguaggio del delfino è analogico perché mostra un
comportamento e non con un comportamento. Mostrare attraverso un
comportamento, presuppone una traduzione alla coscienza
del comportamento inconscio e quindi il linguaggio del
corpo che ne deriva è il riflesso di un concetto;in modo
simile l’allegoria è la metafora di una relazione
razionale tra astratte categorie
intellettuali(ex.:allegoria dell’arte, della teologia
ecc.) a differenza delle genuine manifestazioni
artistiche che sgorgano dall’inconscio e successivamente
vengono espresse con i mezzi della tecnica propria
dell’arte specifica. L’artista, in altre parole,
va al di là dell’elaborazione cosciente del fine che si
propone, in quanto il fine cosciente è una parte o,
meglio, una fase di un meccanismo conscio/inconscio, il
cui processo è sistemico e costituisce l’essenza
dell’universalità dell’opera d’arte. In questo processo,
infatti, si realizza una relazione tra processo primario
e coscienza, che può bene assimilarsi ad un processo
cibernetico, nel quale l’intero universo contenuto
nell’inconscio trova realizzazione ed interpretazione
finalistica nell’interpretazione cosciente e sociale, ma
questa a sua volta rinvia ad altri significati inconsci
e da scoprire, in un meccanismo ricorsivo ed
autocorrettivo. In conclusione abbiamo
visto che la scienza, la filosofia, l’arte si fondano
sulla capacità di “percepire”, ovvero “costruire” una
propria conoscenza della realtà, ciascuna opera con
presupposti, ciascuna è vittima di un linguaggio che
“reifica”, ovvero trasforma in “cose” i processi. In questo difficile
esercizio, l’uomo utilizza una “struttura che connette,
ovvero una metafora, attraverso la quale riesce a
“mettere in relazione” ciò che il linguaggio “digitale”,
espressione della sua parte razionale, non sa costruire
e concepire. La creatività è frutto di
un processo ricorsivo razionale-conscio,
irrazionale-inconscio a partire dalla frustrazione delle
scelte, operate nell’ambito di un paradigma noto, sia
nella loro funzione descrittiva, sia in quella
prescrittivi.
C’è quindi, sia nell’arte,
sia nella scienza e nella filosofia una “ricorsività” di
livelli logici che ci inducono a ritenerle altrettante
forme di conoscenza.
Permettetemi ora di
sottoporvi qualche fatto, che scelgo tra gli
innumerevoli che potrei prendere in considerazione. Nel 1863 Manet espone
“Dejeuner sur l’erbe”, nasce l’impressionismo. La sua pittorica si fonda,
almeno per gli aspetti che ci interessano, soprattutto
nell’uso del colore e della luce. Il colore e la luce
sono gli elementi principali della visione: l’occhio
umano percepisce inizialmente la luce e i colori, dopo
di che, attraverso la sua capacità di elaborazione
cerebrale distingue le forme e lo spazio in cui sono
collocate. La maggior parte della esperienza pittorica
occidentale, tranne alcune eccezioni, si è sempre basata
sulla rappresentazione delle forme e dello spazio. Non è difficile capire che
l’impressionismo si fonda su una diversa
percezione(costruzione) della conoscenza della realtà. Nel 1875 Wundt apre a
Lipsia il suo laboratorio di psicologia, dando inizio
alla giovane storia di questa disciplina come scienza
autonoma, separata dalla filosofia. Nell’ambito del suo sistema
definisce la psicologia” l’intero contenuto
dell’esperienza nella sua relazione con il soggetto” che
richiede quindi l’introspezione come metodo. I contenuti
dell’esperienza immediata (percezioni, sentimenti,
ricordi) costituiscono processi complessi che è
possibile scomporre nei loro elementi semplici; i
compiti che spettano alla ricerca psicologica sono
quindi tre: analizzare i processi composti; stabilire
quali sono le connessioni tra gli elementi individuati
dall’analisi; individuare le leggi di associazione da
cui derivano i processi psichici complessi.
In altre parole, la psicologia si indirizza a essere una
scienza del comportamento umano, basata sulle relazioni
soggetto/oggetto, contenute nella sua esperienza. Infine, nel 1927, Heisenberg elaborò il famosissimo Principio di
Indeterminazione. Questo principio afferma
che maggiore è l’accuratezza nel determinare la
posizione di un particella, minore è la precisione con
la quale si può accertarne la velocità e viceversa. Quando si pensa
all’apparecchiatura necessaria per eseguire le
misurazioni, questa indeterminazione risulta intuitiva.
I dispositivi di rilevazione sono così grandi che la
misurazione di un parametro come la posizione è
destinato a modificare la velocità. Occorre sottolineare
però che le limitazioni in parola, non derivano solo
dall’invasiva interazione del mondo macroscopico sul
mondo microscopico, ma sono proprietà intrinseche
(ontologiche) della materia. In nessun senso si può
ritenere che una microparticella possieda in un dato
istante una posizione e una velocità. In questi tre esempi
possiamo verificare come quel mondo di oggetti, definito
realtà, che trova la sua espressione più compiuta nella
pittura rinascimentale, con la scoperta della
prospettiva e lo sviluppo del disegno della figura
umana, nella meccanica galileiana e newtoniana, che
descrive le leggi del moto di oggetti nello spazio,
quella descrizione ontologica della realtà del “Cogito
ergo sum” viene sostituito da un mondo di relazioni. Mi pare di poter dire che
senza una diversa percezione della realtà difficilmente
Heisemberg avrebbe elaborato il suo principio, Wundt la
sua psicologia, né sarebbe nato l’impressionismo. E’ troppo poco per
concludere che i cambiamenti di paradigma nell’arte e
nella scienza dipendano solo dal diffondersi di una
nuova maniera di percepire il rapporto individuo/realtà,
non avendo peraltro detto come si formi, né come si
diffonda tra i diversi soggetti questa nuova percezione,
ma il tema è abbastanza suggestivo per continuare a
ragionare su questa, direbbe Bateson, “Struttura che
connette”.
|